Dopo l’estate e le forti temperature, nelle terre italiane di un tempo ci si attrezzava di “ancinu” e ci si preparava a trasformare il grano in pane.
L’inizio dell’autunno, infatti, dava il via ad un processo lento e laborioso nelle campagne siciliane.
Si partiva con l’aratura, in modo da lavorare il terreno e renderlo più adatto alle fasi successive. Piccoli canali di terra venivano smossi attraverso l’aratro, trainato da cavalli o buoi e, in tempi successivi, direttamente dalle persone.
Lo scopo era quello di creare un ambiente ospitale per le piante coltivate. Per fare ciò era necessaria una “strategia”, cioè un lavoro di gruppo ben organizzato.
Le fasi di un lavoro duro
Una fase molto importante e decisiva da cui dipendevano le sorti del prodotto finale era la semina.
Il processo era sacro perché il pane rappresentava uno dei pochi sostentamenti per la vita delle famiglie sicule.
Il grano veniva sparso nel terreno già concimato ma la scelta della semina da deporre era affidata ad un esperto: u mastru cirnituri.
Il suo compito era quello di selezionare i chicchi migliori in modo da avere maggiori percentuali di successo.
Il processo terminava quando l’aratro ripassava per ricoprire i semi con la terra.
La germinazione del seme, la nascita e la crescita della pianta veniva seguita accuratamente dal contadino che, di tanto in tanto, si preoccupava di eliminare erbacce che potevano disturbarne lo sviluppo.
Ancinu, verso la mietitura
Con l’arrivo dell’estate, le terre si coloravano di un biondo acceso. Era il segnale che il grano era pronto per essere raccolto.
Con piccoli apprezzamenti terrieri, la mietitura era effettuata da un unico agricoltore aiutato dalla sua famiglia ma ogni componente aveva un compito specifico.
Il lavoratore più esperto, solitamente, aveva il compito di tagliare le spighe con una grossa falce e, in tal modo, veniva gestito il ritmo degli altri aiutanti.
Il grano tagliato doveva essere riunito in modo da formare dei covoni. L’attrezzo che veniva usato era l’ancinu, una specie di uncino di ferro a forma tubolare e senza lame.
Il suo scopo, infatti, non era più quello di tagliare le spighe ma di raggrupparle formando la gregna.
Solitamente, ai lavori di mietitura partecipavano anche i figli più piccoli dei capi famiglia. A loro veniva dato l’anciniaddu cioè un uncino di legno più piccolo, più facile da maneggiare da mani giovani.
Una volta raccolti, i covoni venivano fatti essiccare al sole e portati all’aia per poi ottenere i chicchi di grano vero e proprio.
La giornata di lavoro di questi braccianti iniziava all’alba e terminava al tramonto (“ri stidda a stidda” come si dice in dialetto siciliano) . Era un mestiere non privo di sacrifici ma che portava sempre i suoi frutti.
Paolo Manetta
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